AVER PAURA DELLA PROPRIA OMBRA: SIMBOLI E SIGNIFICATI DEL DOPPIO di Claudia Grillea

“Ma che cos’ho dunque? È Lui, lui, Horla, che mi ossessiona e mi fa avere queste allucinazioni! È in me; diventa la mia anima; lo ucciderò!” (Maupassant – Le Horla)
L’esperienza del tirocinio nella DREAMS ONLUS ed ora della frequenza alla Scuola Internazionale di Psicoterapia nel Setting istituzionale (SIPSI) sono state importanti per orientare il mio percorso formativo e le mie letture facendomi comprendere meglio il mio profondo interesse per il tema del doppio.
Il doppio è un simbolo che appartiene alla storia umana stessa, tramandato di generazione in generazione, di popolo in popolo; ha attraversato i millenni ed ha assunto milioni di sfaccettature differenti, accomunate da un’importante caratteristica: la paura. Porta con sé un enorme bagaglio di superstizioni e leggende che lo caricano delle più grandi angosce dell’uomo: la paura di invecchiare, della morte, la paura di annientarsi, la paura dell’ignoto e delle parti di sé scomode, reputate sconvenienti, rivoltanti.
Nonostante questo, è possibile che in origine il doppio abbia avuto una valenza positiva; Rochholz riteneva che fosse una sorta di “spirito protettore” (ad esempio l’ombra, o l’angelo custode) che con il passare del tempo e del rafforzarsi della fede cristiana sia stato sempre più collegato ad una sorta di “spirito della morte”. Per questo motivo, si sarebbe passati da una figura di custode, che affianca e protegge ogni persona, ad uno spirito persecutore che dà la caccia a colui che gli è stato affidato, fino alla morte (“Il doppio” – Rank). Persino la placenta, entità misteriosa e affascinante, rappresenta un doppio del bambino; fa da filtro fra madre e feto per tutta la durata della gravidanza e alla fine viene partorita proprio come fosse un figlio. La placenta è forse uno dei pochi esempi di doppio che mantiene delle accezioni positive, ad esempio “essere nato con la camicia”, quindi con il sacco amniotico (un annesso embrionale, come la placenta), si dice porti fortuna (“I Benandanti” -Ginzburg). Ma che fare della placenta? Gli animali la mangiano per poter recuperare dei nutrienti utili alla madre dopo il parto, ma noi umani? Molte sono le superstizioni legate al rito della placenta; c’è chi crede vada mangiata, chi conservata. I Maori delle Isole Cook, in Nuova Zelanda, dopo il parto hanno l’abitudine di seppellire la placenta nel terreno, piantando sopra un albero di cocco. In un libro del Vecchio Testamento, la placenta viene definita “l’anima esteriore”, “il gemello interiore”. Proprio la placenta quindi è il primo gemello, il primo “doppio” che incontriamo nella nostra vita.
Ne “La Notte Bianca – studio etnopsicoanalitico delle comunità suicide” il Dr. Nesci (1991) riprende e approfondisce lo studio del doppio, anche grazie al recupero del carteggio tra Freud e Jung sulla scoperta dell’imago placentare. Ma sarà solo in una preziosa edizione limitata (in inglese) di questo perturbante volume (“The Lessons of Jonestown”, pubblicata in solo trecento copie, nel 1999) che il Dr. Nesci svelerà (solo per pochi “iniziati” dal momento che il libro non è mai stato messo in vendita ma è stato solo donato ad una ristretta cerchia di psicoanalisti, studiosi ed allievi, quasi tutti non italiani) la storia segreta di questa perturbante scoperta e del suo ancor più inquietante occultamento.
Per concludere la tematica della placenta come doppio, avendo citato la vicenda di Jonestown, non posso fare a meno di accennare alla figura del leader placentare, il quale esercita attivamente una funzione di filtro tra la comunità ed il mondo esterno; da un lato consente il passaggio di sostanze nutritive dall’ambiente (la madrepatria/corpo della madre) alla comunità (il popolo/unità fetoplacentare), dall’altra consente l’allontanamento del male interno della comunità e ne previene così l’avvelenamento endogeno (Nesci, 1989). Il Dr. Nesci continua scrivendo: “Queste funzioni sono del tutto simili a quelle descritte in letteratura sui re sacri, come gli aspetti terapeutici o l’istituzione di re temporanei, veri e proprio doppi del leader, destinati a morire al suo posto, periodicamente, come capri espiatori del gruppo (Vernant, 1966; Girard, 1982; Nesci, 1991). […] Il re sacro aveva ormai esaurito la sua capacità di assorbire il male interno della comunità, di neutralizzarlo […] il principio vitale doveva essere trasferito altrove (nel suo successore) mentre il corpo del vecchio re poteva essere utilizzato ormai solo come un ricettacolo di tutto il male della comunità. […] In questa prospettiva il re sacro appare come il doppio del suo popolo, il depositario dell’anima del popolo, e quindi come il contenitore dei cicli di crescita/morte/rinascita (o meglio crescita/espulsione/reinfetazione) che ogni popolo fantastica per se stesso ed elabora, proiettivamente, attraverso la doppia figura del re sacro/pharmakos” (Nesci, 1991, “La Notte Bianca”).
Tutti noi conosciamo bene invece altre versioni della simbologia del doppio, con cui veniamo costantemente a contatto, anche se non ci soffermiamo a pensarci: l’immagine allo specchio, il riflesso, l’ombra, i sosia, i gemelli. Queste infatti sono tutte rappresentazioni del doppio che fanno parte della nostra vita quotidiana. Basta dare uno sguardo a qualche racconto dell’orrore o lasciarci trasportare dai ricordi di qualche film per poter subito sentire l’effetto “unheimlich” (Freud, 1919) di queste immagini. Si pensi alle gemelle del classico “Shining” (film diretto da Stanley Kubrick, tratto dal romanzo di Stephen King), alle molteplici storie in cui il protagonista vende l’anima al diavolo e perde così la sua ombra (ad esempio “La Storia straordinaria di Peter Schlemihl” di A. Von Chamisso) ed al più recente film “Riflessi di Paura” (film horror diretto da Alexandre Aja), nel quale la propria immagine allo specchio si dissocia dai protagonisti e addirittura, uccidendo sé stessa, li uccide. Si potrebbero fare milioni di esempi sia in letteratura che nel cinema, ma cos’è dunque il doppio?
A mio avviso, la definizione che più si avvicina a descriverlo è quella dell’archetipo dell’Ombra, di Jung: “Purtroppo, non c’è alcun dubbio che, in generale, l’uomo è meno buono di quanto egli stesso immagini o voglia essere. Ognuno ha un’ombra, e tanto più questa è nascosta rispetto alla vita cosciente dell’individuo, tanto più diventa nera e densa. In qualsiasi caso si tratta di uno dei nostri peggiori ostacoli, dal momento che frustra le nostre intenzioni più benintenzionate.”
Secondo la psicologia analitica di Jung, l’ombra non è altro che il “lato oscuro” di noi stessi. Contiene gli istinti repressi, le parti di noi che reputiamo intollerabili, da nascondere al mondo interno e persino a noi stessi. Questa è una descrizione che in parte combacia con quella dell’inconscio Freudiano, ed effettivamente ne è una parte: quello che di noi odiamo, ciò che è inadeguato ma non siamo in grado di smettere di desiderare. Noi tentiamo di reprimerlo meglio che possiamo, ma è come cercare di spazzarlo via accumulando la polvere sotto al tappeto. Continuiamo a sentire gli effetti della sua presenza, anche se l’abbiamo “dimenticata”. La polvere resta là e, così come nell’inconscio, continua ad esistere e può tornare alla luce. Quando questo avviene, abbiamo l’effetto perturbante (Unheimlich) che il soggetto prova di fronte al proprio doppio, alla propria ombra, distaccata da sé: il soggetto è sconvolto, smarrito, sperduto o meglio, “spaesato” (come ci insegna Franco Rella in “Le parole e il silenzio”). Di nuovo è il Dr. Nesci ad approfondire queste tematiche nella “doppia introduzione” della sua “Notte Bianca”. La traduzione letterale di Unheimlich è “non familiare”, così come è per noi il nostro doppio, la parte di noi che abbiamo segregato e scisso perché non fosse più parte di noi, perché fosse estranea. Riportare allo scoperto il doppio è perturbante per questo: è familiare, ci riconosciamo in lui, lui è noi e noi siamo lui, ma allo stesso tempo non vogliamo che ci appartenga, lo rinneghiamo, lo vogliamo estraneo a noi. Familiare e non familiare, estraneo, al tempo stesso.
“Sono perduto! Qualcuno possiede la mia anima e la domina! Qualcuno comanda ogni mio atto, ogni mio movimento, ogni mio pensiero. Io non conto più niente dentro di me, sono soltanto uno spettatore ridotto in schiavitù e terrorizzato da tutte le azioni che compio. Vorrei uscire. Non posso. Lui non vuole e io rimango, smarrito, tremante, nella poltrona in cui m’ha obbligato a sedere.”
(Maupassant – Le Horla)
L’Ombra, intuitivamente descritta nel racconto “Le Horla” di Maupassant, quanto più la si reprime, tanto più cresce, ci domina, diventa pericolosa e può distruggerci.
Quale esempio migliore se non “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” di Robert Louis Stevenson, per descrivere il doppio come ombra di noi stessi?
“Nella maggior parte degli uomini, le ragioni del bene e del male dividono e insieme compongono la duplice natura dell’uomo. Ambedue le mie nature erano assolutamente spontanee. Mi avvicinai alla verità, la cui parziale scoperta doveva portarmi a un così spaventoso naufragio: che l’uomo non è in verità uno ma duplice.”
L’uomo è in realtà duplice, ma forse anche trino: chi può contare le parti che compongono il nostro essere? Il doppio, come è magistralmente rappresentato in questa storia, è la rappresentazione della totale separazione tra bene e male. A volte è così angoscioso per noi accettare di poter avere dei lati negativi, di poter avere dei comportamenti sbagliati, di poter desiderare cose che non sono conformi a ciò che la società impone. Il percorso di introspezione, di ricerca e di “accoglienza”, quando possibile, di questi lati di noi è a mio avviso fondamentale e basilare per poter mantenere l’equilibrio. Amo utilizzare le metafore dell’omeostasi e dell’entropia per spiegare che l’equilibrio è sempre dinamico e non statico. L’omeostasi è definita come il tentativo di un sistema di conservare il proprio equilibrio in modo dinamico, di autoregolarsi e di contrapporsi all’entropia. L’omeostasi è il risultato di due tendenze che tirano in direzioni opposte. Non esisterebbe equilibrio vitale nella vittoria di una delle due forze. Per questo è invece importante cercare di conoscere, innanzitutto, comprendere e poi accettare, lati di noi stessi che possono sembrare a primo impatto solo “malvagi”, mentre nessuna persona al mondo in realtà può essere totalmente “buona”, né totalmente “cattiva”. Proprio così come accade nella storia del Dottor Jekyll, il protagonista è consapevole di essere allo stesso tempo un intelligente uomo di scienza, ligio al dovere e impegnato nella ricerca, in opere buone che lo gratificano, ma di provare anche piacere nel perdere il controllo e vivere esperienze che potrebbero essere giudicate come “sconvenienti” per la sua immagine, per il suo ruolo. Eppure, come racconta lui stesso, si sente coerente nell’essere entrambe le cose; ognuno di noi è anche il suo doppio, anche se è molto difficile accettarlo e tutt’ora questa immagine porta con sè una valenza terrificante, spaventosa. Se incontrassimo il nostro doppio, questo sarebbe di certo l’incarnazione di tutto ciò che di sbagliato e malvagio c’è in noi, quindi a cosa potrebbe mai portare se non alla morte?
In tutti i racconti, in tutte le storie e leggende tramandate, il protagonista finisce per ingaggiare una sfrenata lotta nei confronti del doppio che non può risolversi diversamente se non con la morte di uno dei due, che si rivela poi un suicidio. Vediamo ad esempio “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde, dove il protagonista, distruggendo il suo autoritratto, ormai reso brutto e vecchio dal suo spregevole animo, muore. “Chi incontra il proprio doppio muore entro l’anno” è solo una delle tante superstizioni che sono legate a questa figura (per un approfondimento, rimando al libro “Il doppio” di Otto Rank).
In conclusione, lo stretto legame con il nostro doppio, indispensabile parte di noi anche quando scissa, ci fa comprendere che non potrà esistere lotta in cui possa mai vincere il bene o il male; la presenza stessa della luce genera sempre un’ombra, non c’è modo in cui l’una possa escludere l’altra. Chi lotta contro il suo doppio morirà e, se non possiamo cambiare questo aspetto, forse è necessario smettere di combattere la molteplice natura del nostro animo; è necessario andare a scovare ciò che nascondiamo negli angoli più oscuri della nostra ombra e comprendere le ragioni della sua esistenza, smettendo di essere una moltitudine di aspetti scissi, divenendo bensì un’anima unica, anche se caleidoscopica.
“Non c’è presa di coscienza senza sofferenza. In tutto il mondo la gente arriva ai limiti dell’assurdo per evitare di confrontarsi con la propria anima. Non si raggiunge l’illuminazione immaginando figure di luce ma portando alla coscienza l’oscurità interiore. Chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si sveglia.”
(Carl G. Jung)