“Dilemma ostetrico e lutto sinciziale” di Domenico A. Nesci

“Dilemma ostetrico e lutto sinciziale” di Domenico A. Nesci

    Ringrazio molto il Centro Studi Martha Harris per aver invitato mia moglie, la ginecologa ecografista Simonetta Averna, e me, per questa proiezione gratuita del film di Kathleen Man Gyllenhaal In Utero trattandosi di una produzione in cui siamo stati in vario modo coinvolti sia lei che io. E ringrazio Kathleen ed Upstream Cinema per avermi autorizzato a condividere con voi la mia copia personale, con i sottotitoli in italiano, al fine di rendere il film momento centrale per questa giornata di studi su “La vita prenatale e le origini della relazione tra il bambino e i genitori”. 

Entrerò subito nel vivo del discorso raccontando come mi sono trovato coinvolto in questa avventura di entrare a far parte del team internazionale di esperti della vita prenatale che Kathleen Man Gyllenhaal è riuscita a mettere insieme per produrre In Utero.

Ricevo una telefonata dal marito di Kathleen, Stephen Gyllenhaal, il padre di Jake e Maggie, noti attori di Hollywood, durante una delle mie estati californiane quando ero solito insegnare a Los Angeles al Dpt. of Psychiatry dell’Harbor-UCLA Medical Center. Stephen mi dice che ha avuto il mio numero da Peter Loewenberg (psicoanalista dell’IPA e professore di Storia a UCLA) e che aveva letto i nostri lavori sulla rivista internazionale di psicologia e medicina prenatale e perinatale per cui desiderava, insieme a Kathleen, intervistare me e Simonetta per il loro film.

In quei giorni avrei presentato un mio libro alla Parlow Library, a Harbor-UCLA, su una nuova forma di Art Therapy che avevo appena inventato (la psicoterapia multimediale) ed avrei avuto come Discussants i Past Presidents della Società americana di Psichiatria e della Società americana di Psicoanalisi, Robert Pasnau e Warren Pocci. Un’occasione perfetta per far conoscere a Stephen le mie ultime ricerche innovative e dare a Kathleen la possibilità di intervistarmi. Ci accordiamo così per incontrarci all’Università, in modo che lui potesse ascoltarmi su questo tema molto “cinematografico” e poi andar via insieme a Hollywood, in uno degli studios, per girare subito l’intervista con Kathleen, che ci avrebbe incontrato là con la sua troupe, e infine andare a mangiare una pizza in un locale tipico (ovviamente italiano) nella zona.

Le ricerche sulla vita prenatale cui si riferiva Gyllenhaal, pur essendo state pubblicate in un numero monografico di Acta Medica Romana e sulla rivista della società internazionale di psicologia e medicina prenatale e perinatale, sono praticamente sconosciute in Italia.

Le riassumerò quindi con piacere anche se questo comporterà un’apparente breve digressione su un evento che sembrerebbe del tutto estraneo al nostro lavoro e che si sarebbe invece poi rivelato fondamentale per il nostro lavoro successivo sulla vita prenatale.

La Notte Bianca

      Dovete sapere che nel 1983 avevo cominciato ad andare in America per scoprire i significati di una tragedia che, dopo aver monopolizzato l’attenzione dei mass media, era stata poi relegata nell’oblio del “disconoscimento collettivo” (Mitscherlich A & M, 1970).

Il 18 novembre 1978, circa 900 persone (cittadini americani) erano morte in un complesso rituale di omicidio-suicidio collettivo (la “Notte Bianca”) avvelenandosi con una miscela di cianuro e Kool-Aid in una comune utopica, perduta nel mare verde della giungla Guyanese: Jonestown = la città di Jones, il pastore di una chiesa protestante americana. Studiando la tragedia da una prospettiva etnopsicoanalitica avevo potuto scoprire che i seguaci del Peoples Temple avevano preferito suicidarsi tutti insieme piuttosto che subire lo smembramento del loro corpo sociale e restituire un bambino (simbolo dell’unità della loro chiesa) ai genitori naturali che avevano abbandonato la chiesa (senza riuscire a portar via con sé il figlio) e lo reclamavano legalmente in tribunale, sia in Guyana che in America (Nesci, 1991).

Studiare l’ordalia del veleno di Jonestown mi aveva consentito, inaspettatamente, di scoprire molte cose estremamente interessanti e di formulare nuove teorie sulle origini della religione e dei riti di lutto, da un lato, e sulle relazioni tra suicidio collettivo, genocidio e guerra, dall’altro. Se volete saperne di più potete fare riferimento ai miei libri, in italiano (Nesci, 1991) o in inglese (Nesci, 2017. Dopo anni di ricerca, ero giunto alla conclusione che mi ero trovato di fronte ad una patologia della simbiosi: meglio morire tutti uniti che vivere ma separandosi. Non a caso, il leader della setta e la moglie, che lo coadiuvava nella gestione della chiesa, si erano perdutamente innamorati mentre preparavano per il funerale il corpo di una donna gravida morta con il suo bambino dentro…

E quindi, di nuovo, forse non a caso, al termine di questo lungo lavoro, durato circa otto anni, ho sentito il bisogno di invertire la mia direzione di ricerca. Ho cercato così di applicare le cose che avevo scoperto sulla patologia della simbiosi nel macrocosmo di un “corpo sociale” alle patologie della simbiosi nel microcosmo del “corpo biologico”: la gravidanza.

Approfittando del mio ruolo di consulente psichiatra nel Policlinico Universitario “Agostino Gemelli” ho iniziato così, con mia moglie e con un gruppo multidisciplinare di Collaboratori, a studiare una serie di donne ricoverate per poliabortività, diabete, ipertensione, gestosi, ed altre gravi patologie ostetriche. Se all’inizio i ginecologi del Reparto erano molto restii a farci vedere le loro pazienti in gravidanza ad alto rischio, nel timore che noi “psi” fossimo sostanzialmente patogeni per l’andamento di queste delicatissime vicende cliniche, con l’andare del tempo la situazione si capovolse, per cui cominciarono ad essere loro stessi ad inviarci delle pazienti “gravi” essendosi resi conto che il solo fatto di essere accolte nel nostro protocollo di ricerca sembrava avere un effetto benefico sulle donne ricoverate.

Cosa avevamo fatto di così speciale?

Almeno due cose:

  1. Con il nostro team interdisciplinare avevamo costituito, intorno ad ogni donna incinta, la riedizione di un’antica struttura antropologica: il gruppo primordiale delle madri teorizzato da Briffault (1927) come organizzazione centrale per la sopravvivenza della specie in epoche preistoriche;
  2. Nello stesso tempo avevamo offerto, ad ogni donna incinta, l’opportunità di una nuova prospettiva sulla relazione con il suo bambino interno: quella del riconoscimento dell’altro e dell’avvio di un processo di separazione/individuazione (Mahler, 1968), egualmente importante per il buon andamento della gravidanza.

Robert Briffault studiò approfonditamente tutto ciò che si muove nell’universo della maternità, giungendo alle conclusioni che l’umanità primordiale era organizzata in gruppi di madri che collaboravano nell’allevamento dei figli. Gli uomini erano periferici rispetto a questo nucleo centrale della comunità, che era invece fondamentale per la sopravvivenza della specie.

Del tutto inconsapevolmente, seguendo le sue orme, noi come gruppo di ricerca, avevamo recuperato questa antica struttura antropologica in cui la gravidanza era tornata ad essere un evento collettivo gestito da un gruppo fondamentalmente “materno”. Per noi, reduci dallo studio del suicidio collettivo di Jonestown, chiarito attraverso la scoperta delle metafore prenatali della leadership placentare e della membership sinciziale, e dalle scoperte interdisciplinari che ne erano derivate, il parto era ormai tutto meno che un evento semplice e naturale. Era un’ordalia!

Noi eravamo ben consapevoli che nella preistoria dell’umanità era accaduto un evento numinoso (e cioè tragico e meraviglioso al tempo stesso) che aveva cambiato profondamente l’essenza del parto umano e le competenze psicosociali della specie.

Noi sapevamo perfettamente che il passaggio degli ominidi alla stazione eretta e, con questo, per una serie di mutazioni genetiche, la comparsa del “dilemma ostetrico” nella nuova specie che si era configurata, era stato una tragedia, da un lato, per l’angoscia di una catastrofe assoluta, dell’estinzione della specie Sapiens, ma aveva anche attivato nuove opportunità.

In qualche modo, senza che nessuno ne avesse mai parlato, le donne in gravidanza ad alto rischio avevano intuito perfettamente che noi capivamo il loro dramma esistenziale in tutti i suoi aspetti, che facevamo il tifo per loro e per i loro bambini, che eravamo la riattualizzazione di quell’antico “gruppo delle madri” che era pronto a tutto per aiutare la compagna incinta.

Il dilemma ostetrico

     Nei suoi studi sui sogni delle donne in gravidanza e sulla funzione paterna, Fornari (1981) aveva già focalizzato la sua attenzione sul dilemma ostetrico.

Il passaggio alla stazione eretta avrebbe comportato la straordinaria encefalizzazione della specie umana e quindi, con la progressiva sproporzione tra canale del parto e cranio fetale, l’instaurarsi di una questione tragica: “come farà un bambino con la testa così grossa ad uscire da un canale del parto così stretto?”

Lo abbiamo visto molto bene nell’animazione del film: il passaggio alla stazione eretta comporta dei cambiamenti morfologici importanti, frutto di quella che, con una metafora poetica, uno storico contemporaneo ha chiamato la “mutazione dell’albero della Conoscenza” (Harari, 2011).

L’ipotesi del dilemma ostetrico si colloca in un periodo preistorico imprecisato (approssimativamente tra 70.000 e 30.000 anni fa) in cui le ossa del bacino si “chiudono” per sorreggere il peso di un corpo che ha raggiunto la stazione eretta e l’encefalo si arricchisce per lo sviluppo degli emisferi cerebrali laterali e di nuove competenze bio-psico-sociali.

Ci troviamo di fronte ad un passaggio evolutivo cruciale: la “Caduta” del genere umano, la perdita del “Paradiso” dell’originaria simbiosi tra i nostri progenitori e la Natura con la comparsa di un evento che avrebbe segnato la nascita della specie Sapiens, tragicamente destinata a “partorire nel dolore” invece che con naturalezza, e soprattutto, a rischiare di morire di parto.

Nei termini di Harari: “Le donne che erano in grado di partorire prima, quando l’encefalo e la testa del loro bambino erano ancora relativamente più piccoli e malleabili, se la cavarono meglio e riuscirono a sopravvivere e partorire altri figli. La selezione naturale favorì dunque le nascite più precoci […] e le capacità sociali.”

Quasi tutte le altre morirono.

Questa terribile pandemia di morti materne, ripetute nel tempo, ha prodotto una serie di vissuti che ho condensato nell’espressione “lutto sinciziale” intendendo con questo un lutto che riguarda tutta la comunità e che provoca una incontenibile angoscia di fine del mondo, di annichilimento ed estinzione della specie (Nesci, 2012).

   Il lutto sinciziale

     Del sincizio, termine poco conosciuto, occorrerà ora parlare, visto che ho appena usato l’aggettivo “sinciziale” senza averne descritte le origini ed il significato. Dunque… il sincizio è un termine biologico che descrive un’organizzazione cellulare dove le singole unità, le cellule, sono fuse in una struttura gruppale in cui all’interno di un’unica membrana cellulare si trovano molteplici nuclei ed organuli citoplasmatici. Un’organizzazione fusionale di molteplici unità originarie (le cellule) che ormai sono una cosa sola, un insieme indissolubile (il sincizio). Nella specie umana, il sincizio è presente proprio nella vita prenatale, nella placenta, oltre che nel cuore. Il sincizio svolge un ruolo fondamentale, tra l’altro, proprio per consentire l’impianto della blastocisti (e cioè del prodotto del concepimento) in settima giornata, dopo il concepimento, all’interno della parete uterina (fig. 1).

 

Fig. 1

     Ho cominciato ad usare la metafora del sincizio quando ho accolto l’ipotesi di Briffault sui gruppi umani primordiali la cui caratteristica psicologica essenziale sarebbe stata la quasi totale assenza dell’individualità.

“Un selvaggio non solo identifica sé stesso con un animale, un albero, o addirittura una pietra. Egli vi dirà, senza alcuna coscienza dell’incongruenza delle sue affermazioni, che suo figlio o suo fratello sono lui stesso, che lui è lì e contemporaneamente in qualche altro luogo. Allo stesso modo egli considera qualsiasi parte separata dal suo corpo come parte integrale di sé stesso: i suoi capelli, le sue unghie, il suo sputo sono parti della sua persona, e ciò che accade loro, dopo la separazione dal corpo, accade anche a lui. Anche i suoi vestiti e il suo nome fanno parte di lui, ed egli cerca di proteggerli da eventuali danni esattamente come cerca di proteggere sé stesso. Una ferita inflitta ad un membro del suo gruppo, e cioè a qualcuno che è carne della sua carne, viene vissuta come una ferita sul suo corpo. […] Egli non pensa nei termini di un io individuale e dei suoi interessi ma nei termini di un individuo gruppale”.

Da un punto di vista psicodinamico si può allora ipotizzare che i gruppi umani primordiali fossero originariamente “sinciziali” – organizzazioni in cui i confini individuali (le membrane) tra i singoli membri (le cellule) non si erano costituiti, “come se un eccesso di individuazione fosse stato controproducente per la sopravvivenza della specie nelle sue fasi iniziali di adattamento ecologico” (Nesci, 1991). Il gruppo umano primordiale non era costituito da individui ma da individui gruppali (“group individuals”)

Farò ricorso ad un’immagine per aiutarci a comprendere meglio il concetto della sincizialità (fig. 2)

Fig. 2

     Quella che vedete è tratta dal frontespizio del Leviathan di Thomas Hobbes (1651) ed è opera di un artista dell’epoca, Abraham Bosse.

Se guardate con attenzione vi rendete conto che il corpo del re, disegnato come se uscisse/fosse-composto dalla madrepatria/ecosistema/ambiente, ha una struttura sinciziale (essendo formato da una moltitudine di sudditi/membri che rievocano gli individui gruppali di Briffault).

La sincizialità, in sé e per sé, non è un bene o un male. Può essere preziosa, contribuendo così allo spirito di qualunque “corpo sociale”, se è ben armonizzata con le istanze di separazione/individuazione dei membri del gruppo, ma può essere anche patologica, e mortificarle, come è successo ad esempio nel caso di Jonestown.

Quello che è importante sottolineare è il fatto che ogni gravidanza, sempre e comunque, indipendentemente dalle reali condizioni fisiche della donna incinta, comporta la possibile ricomparsa di angosce di morte cosmiche vissute come la ripetizione dell’antica vicenda di morti materne nel periodo del passaggio della specie umana alla stazione eretta.

In questo senso potremmo ipotizzare che anche certi vissuti angosciosi dell’attuale pandemia COVID-19 siano associabili con il lutto sinciziale e quindi con l’angoscia dell’estinzione della specie.

Conclusioni

     Concluderò riprendendo la visione di Harari sulla questione del dilemma ostetrico come conseguenza della mutazione dell’albero della Conoscenza, mostrando come questa visione sia in linea con il discorso del film che abbiamo appena visto.

Se proviamo ad andare indietro nel tempo, con la nostra immaginazione, ed a rappresentarci uno scenario di gruppi umani primordiali formati da piccole entità, disperse in un territorio prevalentemente inabitato, l’aumento di morti materne è una vera tragedia. Se poi pensiamo ad un aumento progressivo di questi eventi infausti ed all’alta mortalità infantile dell’epoca, non è difficile ricostruire il vissuto di questo cambiamento come quello di un rischio di annichilimento per tutta la comunità.

Non è quindi difficile immaginare che tutti gli “individui gruppali” preistorici, membri del gruppo sinciziale, siano stati esposti ad angosce di estinzione insostenibili per la mente umana gruppo-individuale. Questo lutto sinciziale, come l’ho definito, era di intensità tale da ispirare i primi riti di lutto e la nascita del pensiero e quindi della cultura.

Se ripensate all’inizio del film In Utero, che abbiamo appena visto, la narrazione comincia affermando che l’ecologia del Mondo comincia dall’ecologia dell’Utero. Se riusciremo a rendere sicura la vicenda del parto umano, allora si potrà sperare di superare la “paranoia primaria” (Fornari, 1981) che oggi avvelena le nostre gravidanze.

Se riusciremo a proteggere le donne dall’angoscia di uccidere/essere-uccise dal bambino interno, forse riusciremo davvero a rendere questo mondo un mondo migliore. Fornari pensava che fosse il padre a dover “bonificare la diade madre-bambino dalla sua distruttività interna”. Io penso che questo compito paterno viene in realtà assolto dall’imago placentare, e che è su questa che dovremmo “lavorare” oltre che sull’imago paterna, se vogliamo muoverci nella direzione di una Ecologia dell’Utero.

L’imago placentare (Freud, 1911) ha la duplice funzione di accrescitore e pharmakon dell’essere umano (Nesci, 1991; 2017). Nel “corpo biologico”, nella simbiosi umana, la placenta è il filtro intelligente degli scambi tra corpo della madre e unità feto-placentare, che consente alle sostanze nutritive di passare dal circolo ematico materno a quello fetale ed alle sostanze tossiche del catabolismo del bambino di passare dal circolo fetale a quello materno (senza che avvengano pericolose mescolanze del sangue dei due esseri, e quindi senza scatenare reazioni immunitarie che li farebbero ammalare). Nel corpo sociale è essenziale che la comunità umana costruisca attivamente e responsabilmente una placenta metaforica (un filtro sociale di leggi e regole che proteggano il bambino nella madrepatria/ambiente) e quindi un’istituzione (o una serie di istituzioni) che proteggano il bambino dentro l’utero, la donna dentro la famiglia, e la famiglia dentro la società in tutto il periodo della gravidanza… perché, come dice Kathleen Man Gyllenhaal nel suo film, l’ecologia del Mondo nasce dall’ecologia dell’Utero!

Bibliografia

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