Il doppio paziente: lo stress nella clinica veterinaria.

Il doppio paziente: lo stress nella clinica veterinaria.

Claudia Grillea, Simonetta Averna, Domenico Arturo Nesci

In letteratura, molteplici articoli scientifici mostrano che il lavoro del veterinario non consiste semplicemente nel “curare gli animali”, così come direbbe il “buon senso comune”. Questi professionisti risultano essere molto stressati, con un alto tasso di suicidi e frequenti episodi di burnout, soprattutto quando si trovano a lavorare in una clinica veterinaria, e cioè in un setting istituzionale. Le evidenze scientifiche ipotizzano che la maggior fonte di stress, insieme ovviamente al carico di lavoro, sia correlata al rapporto non con l’animale malato ma con il suo “proprietario/custode/detentore”. Sin dalla formazione universitaria, non esiste nessun tipo di insegnamento che prepari il veterinario a comprendere la richiesta del suo “vero cliente”, ad accoglierne le preoccupazioni, a gestire il carico di stress e di emozioni negative che il “padrone” (termine improprio) getterà su di lui.
Queste informazioni, che ho raccolto da una rapida revisione della letteratura, essendo stata coinvolta in un gruppo di ricerca su questo particolare stress professionale da un’idea del Dr. Nesci e della Dr.ssa Averna, meritavano un approfondimento sul campo.

Ma la ricerca, nella nostra “vision”, che è quella della (DREAMS onlus), non è un esercizio astratto ma si inserisce sempre in un’attività di cura efficace e praticabile. Prima di accostarci concretamente al campo di ricerca (a parte la revisione della Letteratura) si è quindi ratificata una convenzione per poter dare supporto psicologico ai professionisti di una nota clinica veterinaria, aperta 24 ore su 24, a Roma, a condizioni di favore. Se la ricerca avesse suscitato ansie negli operatori sanitari coinvolti, saremmo così già stati pronti a dare una risposta terapeutica adeguata.

 

Un intervento esplorativo preliminare

Nello stesso momento in cui la DREAMS si è data uno strumento operativo per aiutare i veterinari ha avviato una prima esperienza esplorativa, del tutto gratuita, per entrare all’interno del mondo della Medicina veterinaria e poter capire effettivamente cosa si provi a lavorare con animali domestici e con i loro proprietari, ascoltando le esperienze dirette dei protagonisti. Per questo motivo, Il Dottor Nesci, la Dottoressa Averna ed io, abbiamo organizzato tre incontri, che possiamo definire conoscitivi, all’interno di una clinica veterinaria di eccellenza.

 

Il primo incontro


Il primo incontro è stato decisamente una piacevole sorpresa per noi, che temevamo di poter incontrare pregiudizi e resistenze, mentre ci siamo ritrovati circondati da una ventina di operatori sanitari (veterinari, con varie competenze, ed infermieri) molto disponibili ed aperti all’opportunità di questo dialogo.

Iniziando col presentare i dati statistici sopra accennati, siamo subito stati interrotti dall’urgenza di raccontare e di raccontarsi di moltissimi partecipanti. La loro esperienza comune ha subito confermato che la fonte maggiore di stress e di malessere è proprio il rapporto col cliente “umano”.

Spesso, nei loro racconti, compaiono episodi in cui vengono sopraffatti dalle richieste del “padrone” dell’animale, che pretende cure senza pagare, quasi come a dire che si pretende che il veterinario debba lavorare gratis, per amore degli animali. Può succedere addirittura di essere insultati quando il cliente non crede nella buona fede degli operatori, che devono barcamenarsi fra l’essere un medico veterinario e doversi improvvisare ad essere uno psicologo in grado di comprendere e curare le problematiche emotive del proprietario, che si sente angosciato dalla malattia del proprio animale. C’è da aggiungere che è complesso riconoscere e differenziare il cliente che ama il suo animale e che proietta sul veterinario la sua paura di perdere un oggetto di amore, dal cliente che ha scelto (inconsciamente) di prendere un animale solo per compensare delle proprie ferite narcisistiche o problematiche irrisolte, e che vede quindi questo animale come una propria estensione o come un capro espiatorio su cui riversare il suo malessere. Questo tipo di cliente è forse uno dei meno facili da gestire perché, anche se in parte non ne è consapevole, non interagisce con i veterinari pensando al bene effettivo dell’animale o alle cure di cui ha bisogno. Il fatto stesso di dover curare l’animale, sottoporlo a delle visite (oppure chiedere di sopprimerlo) può generare nel cliente umano angosce difficili da gestire e di fronte alle quali il veterinario può rimanere spiazzato. Durante gli incontri, tutto sembra girare intorno ai racconti della propria vita professionale. Il discorso del gruppo è costellato di aneddoti, di doppie verità. Un lunghissimo racconto nel racconto, dal cliente che racconta la sua vita al veterinario, al veterinario che la racconta a noi, a noi ora qui a scriverne…

 

Il secondo incontro


Durante il secondo incontro, ancor più affollato del primo, abbiamo modo di comprendere meglio la problematica della gestione dei ruoli all’interno della clinica. I veterinari ci spiegano che non esistono ancora in Italia delle vere e proprie specializzazioni nel loro lavoro, come possono esserci all’estero (in alcuni Paesi) ed in Medicina umana. Questo fa sì che tutti debbano, e possano, trovarsi a dover svolgere un qualsiasi compito, all’occorrenza, cosa che ha dei vantaggi ma anche degli svantaggi. Il fatto di essere come delle cellule staminali totipotenti, fa sì che si abbia in sé la capacità di divenire all’occorrenza ogni cosa si desideri ma, in questo ambito, sembra quasi questa fase sia destinata a ripetersi in un ciclo eterno, senza la possibilità per le cellule di differenziarsi. Effettivamente, è la capacità di differenziazione che rende forti le cellule e questo sembra invece mancare a questi professionisti che configurano una sorta di “gruppo sinciziale” (Nesci, La Notte Bianca, Armando Editore, 1991) indifferenziato, che confonde ruoli e responsabilità, non riuscendo mai ad uscire da questa fase inziale e quindi ad assumere un’identità individuale. Loro stessi verbalizzano la loro situazione come una “lotta nel fango” e penso che questa frase descriva benissimo l’invischiamento fisico ed emotivo in cui si trovano i veterinari all’interno della clinica. Un clima regressivo: viene allora spontaneo al Dr. Nesci collegare questa parola al mito della dea Cura e della nascita dell’uomo, chiamato “humus” da Saturno (il dio del Tempo) proprio perché plasmato dal fango… un mito a cui il Dr. Nesci fa spesso riferimento anche nelle sue lezioni alla Scuola Internazionale di Psicoterapia nel Setting Istituzionale e che racconta al gruppo dei veterinari.
Il loro mondo ci appare infatti estremamente dinamico ma anche arcaico. Sembra quasi che tutte le persone coinvolte (operatori e loro clienti) ancora non siano riuscite a differenziarsi ed evolversi nelle nuove trasformazioni in atto e che umanizzano sempre più gli animali domestici (spesso a scapito della loro salute) senza contemporaneamente promuovere l’evoluzione del ruolo stesso del cliente (da “padrone” a proprietario) e del veterinario, che necessita di una specializzazione e di una adeguata preparazione psicologica (ad oggi non impartita nelle università italiane).

Durante il corso del tempo, l’animale ha subito un processo di umanizzazione notevole, fino a diventare un membro della famiglia in quasi tutte le case. Alcune persone trattano il proprio cane come un figlio, altri si confidano con lui e lo considerano appunto “il miglior amico dell’uomo”. Questo indubbiamente è ben diverso dal ruolo che poteva avere un cane 50 anni fa, quando era raro vederne nelle case e al massimo era utilizzato come “cane da guardia” o per specifiche funzioni di utilità (cani “da lavoro”). L’umanizzazione dell’animale domestico spiega il legame affettivo profondo che il proprietario ha con lui. È normale oggi vedere un umano piangere disperatamente per la perdita del proprio animale, vivendo un vero e proprio lutto, la perdita di un oggetto d’amore. Il cliente del veterinario non è più solo il proprietario di un animale da curare, ma il “parente di un familiare”; è uno che porta il proprio figlio dal pediatra o in ospedale. Il veterinario non è ancora pronto (perché non è stato preparato) ad affrontare un lavoro con gli “umani”.
Chiudiamo così l’incontro, riflettendo ancora una volta sul tema del “doppio” (la natura umana e animale dei clienti, da un lato, l’umanizzazione degli animali domestici, dall’altro).

Il Dr. Nesci, dopo il termine dell’incontro, quando siamo rimasti da soli, collega il tema dell’umanizzazione dell’animale con quello dell’umanizzazione delle macchine. Viviamo in un’era in cui si lavora sulla creazione di cyborgs, robots, e androidi ai quali si vorrebbero poter aggiungere emozioni, per non parlare delle nuove prospettive transhumanist, che propongono inquietanti scenari (O’ Connel, To be a machine, 2017) che non possono non farci paura. Ascoltandolo, a me viene in mente anche il suo opposto, ovvero la disumanizzazione degli umani: durante l’incontro i veterinari hanno parlato sempre in termini di statistiche e percentuali, si sono definiti “macchine da guerra” e, per finire, spesso si è parlato della soluzione dell’alzare un muro per non farsi coinvolgere emotivamente. Che sia questa la difesa messa in atto al fine di arginare la paura? Gli animali diventano umani, le macchine diventano umane e così gli uomini diventano macchine, scambiandosi i ruoli? Tengo questa fantasia per me in attesa di vedere come si evolveranno le cose nell’incontro successivo, che si rivela decisivo…

 

Il terzo incontro


La parola chiave del terzo e ultimo incontro è stata Unheimliche, il perturbante di Freud, o nella traduzione di Franco Rella, reso molto meglio come “spaesamento”, di fronte al familiare/non familiare (il rimosso o il ritorno di qualcosa che era stato superato nel corso dell’evoluzione e che invece sembra materializzarsi di nuovo). Questo senso di smarrimento è quello che ci coinvolge ogni volta che entriamo in clinica e che ci trasmettono inconsciamente i veterinari stessi (il loro transfert).

Nell’interpretazione psicoanalitica, ipotizziamo fondamentalmente che questo effetto “unheimlich” sia dovuto al loro stesso spaesamento, quello che sin dal primo giorno di vita professionale effettiva hanno sperimentato nel trovarsi a lavorare con il proprietario piuttosto che con l’animale, e cioè a fare un lavoro estremamente diverso rispetto a quello per il quale erano stati formati. Essere travolti dalla frenesia dei ritmi della veterinaria, cercando di trasformarsi ad ogni necessità, accontentando le richieste di un cliente inaspettatamente esigente, non fa altro che complicare la riuscita anche della più semplice valutazione, diagnosi e cura di un animale. Risulta profondamente perturbante non ritrovare la propria identità, o meglio non riuscire ad avere un punto di riferimento al quale aggrapparsi per poter capire come affrontare una moltitudine di situazioni imprevedibili, mai uguali ad una precedente, che riflettono la complessità dei rapporti nella visita veterinaria. In questo caso possiamo dire che la complessità è aumentata dalla presenta di un “doppio paziente” e, perché no, anche della sua doppia natura. L’animalità in ognuno di noi e l’umanità in ogni animale. Il doppio si trasforma nel quadruplo e il quadruplo esponenzialmente a sua volta cresce. Si tratta non solo del prendersi cura dell’animale, ma di accogliere la sua umanizzazione, di prendere in considerazione la proiezione del legame fra padrone e animale ed anche l’animalità del cliente stesso, che emerge ad intermittenza fra una richiesta eccessiva e reazioni apparentemente irrazionali.
Emerge in questo ultimo incontro, una nuova figura portatrice di nuove problematiche: l’allevatore!

I veterinari ci raccontano che gli allevatori, paradossalmente, a volte, non hanno nessuna competenza o vera conoscenza in campo animale, ma si tratta di persone che sono diventate allevatori semplicemente “accumulando” animali.

Se è già non semplice comprendere le ragioni che portano una persona ad avere un animale domestico, e rintracciare le proiezioni e le identificazioni che ne costituiscono le motivazioni inconsce, figuriamoci quanto questo diventa complesso nel caso di un allevatore, che di animali ne può avere in grandi numeri. Si parla di come i veterinari debbano fare un doppio lavoro (anche in questo caso) per andare a smontare le teorie inculcate dall’allevatore al futuro “padrone”, prima di poter consigliare la giusta pratica da seguire per curarlo. Non solo: a volte gli allevatori si arrogano di fatto il diritto di scegliere chi sia “degno” di avere il loro animale e chi no, e si ergono come dei veri e propri guru, pronti ad insegnare e illuminare la strada da seguire agli “ignari” aspiranti proprietari, che spesso sono alla prime armi e non sanno cosa aspettarsi.

I veterinari sono particolarmente preoccupati quando hanno l’impressione di trovarsi di fronte a persone che si sono improvvisate in questo ruolo, apparentemente, solo con uno scopo di lucro. Noi, dal canto nostro, ci preoccupiamo del fatto che possa trattarsi, in questi casi, di persone con delle problematiche o bisogni emotivi, psicologici, che vengono compensati diventando allevatori. In una prospettiva psicoanalitica, ci fa osservare il Dr. Nesci, l’allevatore ha il ruolo di realizzare gli accoppiamenti, è l’unico legittimato ad assistere alla scena primaria, come la definiva Freud (1914). Questa persona ha nelle proprie mani il potere di controllare la riproduzione e la possibilità di generare nuova vita, ipoteticamente all’infinito. Possiamo cogliere, già da questa ipotesi, i tratti di maniacalità espressi molto probabilmente per tenere a bada una grande angoscia depressiva, e mi viene in mente un episodio, raccontato da uno dei veterinari, riguardo uno psicologo che aveva consigliato ad un uomo di prendersi un cane per aiutarlo a superare la propria depressione… quest’uomo aveva finito poi per diventare allevatore.
Risulta molto più chiaro adesso il motivo del così alto tasso di stress della classe veterinaria, che si è aggrappata a noi nei primi due incontri, cercando di “utilizzarci” in maniera catartica, felici di potersi fermare e farsi ascoltare, farsi “individuare”. Per la prima volta, forse, hanno avuto l’occasione di spiegare chi sono veramente… e noi li abbiamo ascoltati uno ad uno, nel gruppo, mentre ci raccontavano le loro esperienze professionali, mentre ci descrivevano il loro lavoro istituzionale e ci correggevano ogni volta che confondevamo (controtransferalmente spaesati) i loro ruoli.

 

Conclusioni

Crediamo di essere riusciti a rimandare ai veterinari della clinica l’importanza di riconoscere ad ognuno il proprio spazio, la propria individualità e il proprio ruolo, di riappropriarsi della propria umanità professionale, di non rinunciare alla spinta verso una differenziazione lavorativa che rischiavano di perdere per la necessità di diventare macchine per poter soddisfare le infinite esigenze di un cliente troppo complesso. All’ultimo incontro, così, hanno partecipato solamente tre veterinari, cosa che abbiamo interpretato come un successo: crediamo di essere riusciti a contenere sufficientemente il bisogno dei veterinari di essere ascoltati e di aver introdotto una dose di differenziazione sufficiente a sciogliere il gruppo sinciziale.


Tirando le somme, possiamo dire che la progettazione di strumenti psicologici per la gestione dello stress nelle cliniche veterinarie potrebbe richiedere il riconoscimento che il ruolo dell’animale domestico è profondamente cambiato nel tempo e adattare di conseguenza la formazione professionale degli operatori ai bisogni di questo loro nuovo “doppio lavoro” con un “doppio paziente”.

In aggiunta, l’esperienza di questo semplice gruppo esplorativo, suggerisce che sarebbe necessario svelare il prima possibile agli aspiranti veterinari il fatto che avranno a che fare con le richieste psicologiche del cliente umano, e magari fornire loro delle competenze per poterle gestire, per evitare il senso di spaesamento che genericamente viene descritto nella letteratura come “stress”. Bisognerebbe preparare il veterinario ad affrontare nel suo “doppio paziente” (umano e animale) sia la parte animale che la parte umana, due sfaccettature presenti, non solo nell’animale domestico o nel cliente, ma in ognuno di noi. Questo è essenziale, se vogliamo evitare il rischio di rendere la clinica veterinaria un luogo di smarrimento nel quale riemerga regressivamente il lato primitivo di noi per difenderci di fronte alla complessità del mondo contemporaneo.


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